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Per ragioni a me sconosciute, mi è stato chiesto da incauti studenti di scrivere qualche riga per il giornalino scolastico, senza un tema preciso. Ho deciso di dedicare il libero spazio così generosamente concesso a qualche pensiero sulla scuola ai tempi della Dad: sono convinto che qualcosa sia accaduto, e che non potremo ritornare a scuola senza ragionarci sopra.

Questo qualcosa non ha a che fare con la tecnologia, l’uso del pc, di Meet o Google-form. Immagino già che il Ministero proporrà ai docenti, dal prossimo anno scolastico, corsi di formazione nei quali esperti di didattica specializzati nell’uso della strumentazione che già conosciamo proporranno nuove soluzioni per sfruttarne al massimo le potenzialità. Già: potenzialità per fare che cosa? Per tenere agganciati gli studenti naturalmente, per stimolarli e coinvolgerli nelle lezioni, posto che la vecchia lezione frontale, quella che ancora caratterizza lo stile d’insegnamento della nostra scuola, con le nuove generazioni non funziona più. A distanza poi non funziona per nulla. Questo l’abbiamo capito.

Non che non ci sia qualcosa di vero, personalmente non sono un tecnofobo, ma sono banalità, che toccano la superficie dell’insegnamento, non lo interrogano in profondità, e rispondono con strumenti tecnici ad una crisi che è invece una crisi di senso. Mi spiego. La Dad è stata accompagnata da “patologie” della pratica educativa: la furbizia (vera o presunta) dello studente, gli atteggiamenti inquisitoriali dell’insegnante (la benda sugli occhi, ad esempio),

la noia mortale delle lezioni-monologo televisive, e naturalmente l’evasione dello studente, facilitata dal fido cellulare, la scomparsa dello studente dietro un’icona, il puro anonimato, la presenza-assenza, ed il progredire inesorabile del programma. Anzi, del Programma. E poi, i fenomeni di disagio manifestati da alcuni ragazzi: disturbi alimentari, del sonno, attacchi di panico, autolesionismo. 

Queste distorsioni non le ha create la Dad, le ha amplificate, se le ha rese più visibili. Per come la vedo io, si è rotto il patto tra docenti e studenti, non quello su carta intestata del Liceo, che è l’ennesima formalità burocratica. Intendo il patto che ha legato le generazioni nella trasmissione di saperi ritenuti importanti in sé, per le loro ricadute pratiche, ma anche per la costruzione di un senso condiviso di cittadinanza, con al centro la persona in formazione. La scuola come mediatrice di senso a mio avviso non c’è più – o sta molto male – ed hanno preso il sopravvento le discipline, gli specialismi, ciascuno dei quali pretende per sé la totalità dello studente, che, naturalmente, da un lato si chiede qual è il senso dello studio delle materie, e dall’altro scoppia.

Può ben darsi che mi sbagli, e che le mie considerazioni nascano dall’inclinazione all’onanismo intellettuale di chi ha studiato filosofia. Credo tuttavia che possano valere come uno stimolo ad una riflessione, anche comune. 

Prof. Giulio Santagada

La scuola dopo la Dad 

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