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La nuvola di Guglielmo Ferri

Updated: Dec 30, 2022

Al sesto piano di un condominio nella Bologna di Ottobre, un uomo avvolto ancora nel piumone, allunga la mano verso l’interruttore che comanda le tapparelle automatiche da poco montate.

“Papà ti ricordi di pagare quella multa entro stamattina? Ti ho preparato il caffè, ma quella moka lo fa troppo acquoso; oggi non torno per pranzo, sono fuori con Milena. Ti ricordi Milena? Dai, quella che abita in fondo alla via, che scambi sempre per Sara, la figlia del fornaio. Che poi, sai cosa? Il suo nuovo taglio di capelli non mi piace per niente, è la brutta copia di Emma Watson nel 2010…”, blatera Beatrice da una stanza all’altra, prima di bloccarsi per qualche minuto davanti al letto matrimoniale.

“Bea, non è la moka, sei tu a mettere troppa acqua”.

“Signor Guglielmo Ferri sono quasi completamente sicura che il problema siano i trent’anni della macchinetta e non la quantità di acqua”, risponde a braccia conserte Beatrice prima di uscire. E forse, ha ragione la figlia, ma come lo si spiega ad un collezionista?

Guglielmo, chiamato affettuosamente da tutti Elmo, lavora come controllore da oltre venti anni. Ogni mattina la sveglia suona alle 6:33 ed è puntualmente ignorata da un sonno troppo pesante; fino all’uscita di Beatrice, quando Elmo decide di alzarsi e recarsi nel bagno padronale. Gira la manopola del rubinetto dell’acqua calda, consapevole che non arriverà, per raccoglierne il quantitativo sufficiente a inumidire il viso sino all’attaccatura dei capelli brizzolati.

Le gocce d’acqua scivolano dal naso fino a cadere giù nel lavandino di marmo ingiallito dal tempo, così come il suo sguardo cade sull’accappatoio lilla riflesso nello specchio; ricordando quella volta in cui Ofelia aveva deciso di ricoprire i suoi lunghi capelli con l’anti-giallo, colorando accidentalmente l’accappatoio e il tappeto. Ofelia era particolare: sempre sorridente, amava lavorare come maestra con i bambini e con la stessa dolcezza che aveva a scuola, affrontava ogni giorno. Lia, come la chiamava affettuosamente Elmo, era da poco scomparsa, ma la sua presenza era in qualsiasi angolo della casa; spesso si nascondeva assieme alla polvere tra i libri di ricette in cucina, altre volte nel silenzio che piombava quando Beatrice andava via. Era sempre con Elmo e lui l’accoglieva con cura e malinconia.

Interrompendo il flusso di pensieri, l’uomo chiude il rubinetto con le mani ormai asciutte. Prende la schiuma da barba e immerge le guance in una nuvoletta con lo stesso vigore con cui si affondano i palmi nell’impasto del pane. Con la lametta mozza i tronchi coperti dalla nube, con il tentativo di tagliare il dolore e aspettare che venga il sereno, sciacquando via i rimasugli di sofferenza.

La nostalgia che accompagna il gesto è il prezzo da pagare a Caronte per far rivivere Lia, ma Elmo è ben consapevole che vivrà per poco, forse è per questo che si muove lentamente in uno spazio intermedio tra l’inquietudine e il bisogno di averla accanto.

Per anni Ofelia si alzava e faceva la barba al marito; dopo la sua morte era Beatrice a guarire il padre di tutti i suoi mali, ma adesso tocca a lui.

Una persona può stare male e volersi bene per cercare di curarsi: allontanare la mancanza di attenzioni di qualcuno, la cui assenza insegna l’amor proprio.

Ofelia, letteralmente “colei che assiste”, porta Guglielmo, “colui che è protetto dalla volontà”, alla comprensione di poter accogliere le cure degli altri, con la consapevolezza che il benessere non può che venire da se stessi.


Maria Luisa Berlino, Emily Francavilla 5ASU

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